Lasciavamo questa terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua
che fuoriesce dall’acquedotto-colabrodo, salta giù dalla pozzanghera fattasi
fonte, scivola e serpeggia tra motorini truccati e automobili scassate, ed
erode le fondazioni delle strade e dei viottoli o scende giù per la discesa
dell’ospedale scivolando sull’asfalto e allagando i marciapiedi fino ai Viali,
dall’unico tombino non otturato al depuratore che non funziona, a farsi lenta
verso Terridi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata
dai venti e pioggia torrenziale che la terra seccata dalla desertificazione e
dagli incendi non riesce ad assorbire. Oltre alla follia di distruggere la
nostra stessa terra per ingordigia e ignoranza, eravamo disoccupati.
Chiamavamo noi stessi sardi, e il più delle volte lasciavamo questa terra con
poche speranze di tornare.